Maria Ausilia Di Falco
C’è silenzio quando apriamo la prima pagina di un libro. Prima il silenzio, poi le parole. Shh.
«Questa storia ha due inizi: almeno due, perché come tutto quello che ha a che fare con la vita, è sempre difficile stabilire cosa cominci e quando…»
C’è silenzio quando ascoltiamo la prima nota di un brano. Prima il silenzio, poi il suono. Shh.
A poco a poco il mistero delle parole, delle note, si rivela e prende il posto del silenzio. Come l’acqua che riempie una fontana, si accumula e trabocca, sonora.
Come i suoni del brano La Cathédrale Engloutie di Debussy. Come le parole del libro Città Sommersa di Marta Barone. Prima il silenzio, poi il suono, il verbo. Sempre.
E tutto intorno aleggia lo spirito di chi scrive, occupando il silenzio.
Marta Barone e Claude Debussy hanno in comune lo spirito di chi scrive senza fare rumore, degli artisti che non vogliono essere sommersi dalle etichette, degli esseri che hanno lo spirito dell’acqua. Non scrivono per comporre cartoline, per descrivere la vita ma per penetrare quella degli altri. E se gli altri siamo noi, che stiamo leggendo Città sommersa, prepariamoci alla sommersione.
Non è pericoloso, state tranquilli. Anzi, più leggeremo questo libro, più verremo sommersi dai suoni della Cathédrale di Debussy. Anche se Debussy dipinge la mitica città di Ys, risorta dall’oceano e Marta dipinge Kitež inghiottita dal lago Svetlojar. In entrambi i casi c’è l’acqua, c’è freddo, ci sono i contorni bianchi e dorati di una cupola e i suoni delle campane che ci entrano nelle orecchie.
Ma per scoprire cosa si nasconde sotto a quel fondale di Kitež, dovete lasciarvi prendere per mano dalla narratrice e farvi portare sott’acqua. Alla fine riemergerete. E non ne uscirete bagnati ma puliti. E leggeri, fidatevi.
Lei, la narratrice, ha 20 anni e a un certo punto, riceve la notizia che suo padre è morto. E come se ce lo avesse davanti, gli dice: “accidenti a te, pà, sei morto. Come hai potuto? Non mi hai neanche chiesto il permesso. Non mi hai neanche dato il tempo di conoscerti”. Sì, perché se sei la figlia di Leonardo Barone, 20 anni sono troppo pochi per conoscerlo. Lei non ha un nome, è semplicemente la figlia di suo padre: Leonardo Barone. Non conoscendo lui, non sa neppure chi sia lei.
Nel fondale della sua vita ci sono tante, troppe cose non dette. C’è Torino, la città dove è nata e che all’improvviso, adesso, le diventa estranea. C’è Milano che la adotta ma la lascia sommersa. Sommersa dalle abitudini che corrono come una linea retta. Sommersa dai ricordi di un padre non particolarmente affettuoso, che ha avuto tre mogli, tanti ideali e poco spazio per lei. Ma dopo la notizia della sua morte, capisce che sta annegando. Se vuole salvarsi deve riemergere e se vuole riemergere deve alleggerirsi di qualcosa.
E allora inizia a spogliarsi. Si spoglia dei tormenti, dei sensi di colpa, del bisogno di affetto, dei pregiudizi. Si spoglia dei nomi. Trasforma suo padre in L.B. e lei diventa la figlia di L.B. È quasi nuda. Ha addosso solo il coraggio, perché ci vuole coraggio per conoscere un padre grande come il suo e lei ha deciso che vuole conoscerlo –anche se adesso non c’è più. E per farlo, deve darsi in pasto ai parenti di L.B., ai conoscenti, agli amici ai nemici, agli avvocati, ai giornali. A poco a poco riporta a galla la verità e lei inizia a risalire lentamente su su su.
Con compostezza e molta onestà ricostruisce L.B. nella sua mente come uomo, mette in ordine gli eventi che lo hanno spinto a trasferirsi dalla Puglia a Roma a Torino e ricompone il puzzle della vita dell’uomo prima che diventi padre. Ingoia i fatti che scopre così come sono e prova a farne combaciare i pezzi con lei che innanzitutto è nata. E poi si è ritrovata in mezzo all’inevitabile rapporto padre-figlia. Come succede a tutti quelli che nascono, nella vita. Tutti già sommersi.
Ma se la figlia di L.B. si spoglia, spoglia anche noi. Non è uno spoiler, si capisce già dalla copertina.
Mai ci fu copertina più azzeccata per un libro.
Ogni pagina che sfogliamo è uno strato che toglie la polvere dalla città e rivela come si snoda la vita della comunità che vi abita. Se la città in questione è Torino e sono gli anni ’70, gli anni dei colpi sanguinosi, delle lotte di partito, del Partito Comunista italiano Marxista-Leninista, delle lotte in fabbrica, degli attentati, allora abbiamo bisogno di togliere tanta polvere per scoprire le regole della comunità torinese –e italiana. Per capire cosa resta delle persone che ne hanno fatto parte. Che di polvere di piombo ne hanno mangiata tanta.
L.B. è tra queste persone ma ha troppi fronzoli per la testa, paga il prezzo della diversità: non gli basta un lavoro e una famiglia. Lui studia, studia continuamente, ha degli ideali e vuole lottare per cambiare la Storia, quella con la S maiuscola, quella che poi si legge sui giornali e diventa storia collettiva. La figlia di L.B., che poi è la scrittrice, allora ci racconta questa Storia che è la storia di tutti. È molto generosa nel farlo, perché usa la prima persona per dirci come sono andati i fatti.
Non lo fa per per-buonismo, lo fa per sé stessa, perché ha bisogno di sapere quanto quel padre che le è sempre sfuggito, ha contribuito al cambiamento. Però si mette in gioco. Mica facile. Dietro gli strati della copertina, non ci sono vetrine di negozi, c’è il suo volto. Mica semplice far coincidere la figlia e la scrittrice che c’è dentro. In mezzo deve esserci per forza un talento, altrimenti qualcosa non funziona.
E anche se, nella sua scrittura a volte troviamo un gesto rigido, freddo, che si mantiene a distanza di sicurezza col lettore, è come se sotto la materia plastica delle pagine sentissimo un’energia soffusa che ci scalda, ci consola. Sotto al tappeto sonoro delle righe che leggiamo, ci sentiamo al sicuro, perché anche se la vita ci sommerge, una speranza c’è: ci salvano i suoni delle campane di Kitež, che forse è Kitež forse è Torino forse è il pedale fisso sulle note di Ys, forse è l’animo umano sempre pieno di risorse.
Le parole di Marta sono stalattiti di ghiaccio che a poco a poco si ergono come pinnacoli che sorgono dal lago. Gli intrecci del libro sono una lenta processione di parole che, come la melodia a due livelli sonori della Cattedrale di Debussy, procedono su due livelli narrativi. Nel primo livello c’è la storia di un medico operaio, nel secondo c’è un legame di sangue, la storia di famiglia. E in mezzo ci sono i peli rizzati di chi legge, i brividi sulle braccia, le lacrime in pizzo. E una grandissima voglia di abbracciare la figlia di L.B. Perché ci fa sentire tutti figli. Di nostro padre, della città dove siamo nati, di quella dove siamo scappati, della vita sempre dolorosa.
Questo libro è acqua perché ci lava. Noi camminiamo sulle pagine come in punta di piedi su un lago ghiacciato. Abbiamo paura di abituarci al freddo, di cadere nel lago e restare intrappolati nel ghiaccio immobile. Cadiamo. Ma a poco a poco ci sciogliamo e non restiamo immobili, ci muoviamo, ci trasformiamo. Sorpresa. Diventiamo il paradigma dell’eterno divenire. E ci puliamo dalla polvere. Abbiamo abbandonato con fatica i dolori, le cose futili e adesso emergiamo alla luce.
Un po’ Carveriana a tratti la Barone-ssa. Sempre di Cattedrali si tratta, e davanti al dolore siamo tutti ciechi, come il protagonista del racconto omonimo di Carver, ma riusciamo lo stesso a disegnare col dito, la vita. Una scrittura equilibrata, senza smancerie: i punti al posto giusto, i paragrafi come intervalli sospesi nel vuoto, uno stile di dolce bruma sonora, senza molte sfumature ma che crea tepore.
Marta ricerca sulla carta gli spazi come Max Richter sullo spartito, nella sua musica spazializzata del suo Departure.
Non usa gli sfarzi emotivi ma non risulta neanche anaffettiva. Lei tenta di spiegare l’inspiegabile, lo prende da un fondo di verità, lo fa emergere e infine ci lascia con la sensazione ancora dell’inspiegabile. Perché, come dice Kafka, l’inspiegabile finisce di nuovo nell’inspiegabile. E la vita è maledettamente inspiegabile. Il tempo sfugge, i padri muoiono e noi restiamo sempre con le nostre voglie irrisolte. Ci abituiamo a vivere ovattati sotto l’acqua, ci inabissiamo. Conviviamo con le assenze, con i personaggi immaginari che abitano la nostra mente.
A meno che non siamo Marta. Che ha avuto l’audacia di dare voce a questi personaggi, di evocare un’assenza e di tenerla sempre presente. Che ha smesso di affondare nella palude della sopravvivenza, se n’è tirata fuori e ha iniziato a correre. Forse, sotto la pioggia, come il suo L.B. in una notte giovane. Alla fine, sempre acqua è. E voi siete puliti adesso. Più leggeri. Ve l’avevo detto, no? Però siete anche bagnati, ops. Non ho mantenuto al 100% la promessa che vi avevo fatto.
Chiedo scusa. Ma questi sono solo discorsi. E del resto, «di tutto l’uomo non resta che una parte del discorso. In genere, una parte. Parte del discorso».