22 Novembre 2024
Alessandra Ferrara | Sconosciuta fino a 15 anni fa, Vivian Maier con i suoi scatti e i suoi autoritratti è diventata una delle maggiori rappresentanti della fotografia di strada
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Alessandra Ferrara

Ricordo quando da bambina, insieme a mia sorella facevamo a gara per conquistare lo sgabellino che si trovava di fronte allo specchio, seppur di carta adesiva, della specchiera a giocattolo. Volevamo provare l’ebrezza di specchiarci, pettinarci i capelli e far finta di truccarci riflettendo il nostro volto su quella superficie. Volevamo sentirci due principesse e il grande specchio del bagno era troppo alto per due bimbe di appena un metro.

Lo specchio è uno di quegli oggetti per noi donne quasi fondamentale: non possiamo vivere senza!

Lo insultiamo quando non siamo contente dell’outfit scelto, imploriamo il suo aiuto affinché la linea dell’eyeliner sia dritta, lo adoriamo se fianchi e glutei sono scolpiti e tonici. Ma allo stesso modo lo odiamo alla vista di un brufolo, di una ruga, di un rotolino di grasso sulla pancia.

Lo specchio dell’androne di casa, la vetrina di un negozio o lo specchietto di un’auto si trasformano, in un lampo, nello Specchio Magico del cartone animato Biancaneve da cui vorremmo sentirci dire “sei tu la più bella del reame”. La sua funzione si riduce così a semplice metro di bellezza.

Modalità automatica: selfie

Non serve essere influencer per ostentare il nuovo colore di rossetto sfoderando un sorriso a 32 denti, oppure il nuovo taglio di capelli con annessa mano fluttuante, o ancora un top pieno di paillettes che risalti il décolleté.

Aggiungiamo la fotocamera di uno smartphone o l’obiettivo di una reflex (di uso meno comune!) ed il selfie allo specchio diventa così facile da scattare e tale da diventare quasi una moda: una regola di omologazione per noi divoratori di pagine Instagram o di qualsivoglia social.

Lo specchio, però, è ancora una volta unità di misura di bellezza, ma c’è del valore aggiunto: il voler comunicare qualcosa al fruitore della fotografia. Quelle pose, quei sorrisi, le sopracciglia inarcate saranno solo un’immagine fine a sé stessa o rappresentano uno stato d’animo interiore?

Proveremo a rispondere a questi interrogativi utilizzando come strumento gli scatti fotografici di una fotografa americana del XX secolo, sconosciuta fino a pochi anni fa: Vivian Maier.

Con i suoi scatti, diffusi ormai nell’intero globo, è diventata una delle maggiori rappresentanti della fotografia di strada. Se solo lo scrittore John Maloof nel 2005 non avesse cercato immagini storiche della città di Chicago e quindi non avesse acquistato all’asta una vecchia scatola piena di negativi, le fotografie di Vivian sarebbero rimaste dei semplici rullini mai sviluppati.

Modalità manuale: autoritratto

Immaginate di passeggiare per le strade dei sobborghi di una qualsiasi città americana, tra la fine degli anni 50’ e l’inizio dei 60’ e di imbattervi, da osservatori, in una donna alta dal capello corto e dallo sguardo fermo, con una Rolleiflex rivolta verso la vetrina di un negozio pronta a scattarsi una foto. Oggi nessuno avrebbe manifestato meraviglia. In quel contesto storico, invece, avrebbero di certo fatto nascere sul volto una smorfia di disapprovazione.

Sfogliando, sul sito web ufficiale, la galleria di immagini della sezione dedicata agli autoritratti ciò che si coglie a prima vista è la ricorrenza dell’immagine di una donna in bianco e nero (o della sua ombra), con una macchina fotografica in mano ad altezza della vita, riflessa su una qualsiasi superficie. Apparentemente non è nulla di sconvolgente o nuovo!

La donna ritratta è sempre una, la stessa Vivian. La posa del corpo è ricorrente: in piedi, mai seduta, spesso con un cappellino sul capo (di uso comune in quegli anni). L’espressione del volto e la posizione della testa mutano. Ora i suoi occhi sono ipnotizzanti, fissi e paralleli alla superficie di scatto. Ora rivolti in basso oppure a destra o a sinistra. Studi relativi all’interpretazione dello sguardo conducono ad ipotizzare che la posizione di questo implichi l’immaginare di qualcosa mai visto prima oppure il ricordo di un’immagine passata. L’espressione della sua bocca però è ciò che cambia le carte in tavola. È sempre uguale, come se fosse scolpita su quella faccia: labbra serrate, alcun sorriso (se non in due o tre scatti). Il suo mento è di norma in linea con le spalle oppure coperto dal capo abbassato. Le spalle sono rigide, probabilmente per conferirle stabilità ed imponenza nonostante la corporatura esile.

Chi è la più bella del reame?

Un osservatore superficiale potrebbe interpretare uno degli autoritratti di Vivian solamente come l’immagine di una donna, sola, alla soglia dei 30 anni che ti osserva, impassibile, con l’hobby della fotografia. Non reggerebbe il confronto con le sue coetanee, la cui principale occupazione era essere una buona moglie o sognare di diventare una diva di Hollywood. La sua immagine dice tutto e niente!

Inconsapevolmente o volutamente (questo purtroppo non lo scopriremo mai!) la fotografia di Vivian diventa però uno strumento di emancipazione, nonché, oggi, un apprezzato stile fotografico.

Di certo a suo tempo le fotografe donne potevano contarsi sulle dita di una mano, ma Vivian ebbe la fortuna di conoscere la fotografa Jeanne Bertrand, che contribuì ad alimentare la sua passione (Jeanne era stata definita una dei fotografi più in vista del Connecticut).

Condividevano, infatti, un trascorso di vita di simile e l’interesse per i ritratti. L’influenza di Jeanne ha sicuramente influenzato Vivian nel non avere paura ad assecondare la sua passione, ad andare in giro sempre con una macchina fotografica al collo (insolita consuetudine per una donna di quegli anni), con il valore aggiunto di auto scattare il suo ritratto.

Chi è Vivian? Cosa vuole comunicare ritraendo sé stessa? Ha deciso di rendere immortale la sua anima riflettendola su uno specchio? Di certo non è una mera ostentazione di bellezza.

Lo specchio e le superfici riflettenti assumono, allora, quel significato profondo che va oltre la parvenza fisica. I più piccoli ed impercettibili movimenti degli occhi, della bocca, dei capelli, delle mani, o delle sopracciglia sono la manifestazione fisica di stati d’animo, di ricordi, di sentimenti, di ciò che arde nell’inconscio. Non per forza questa donna autoritratta con quella sua espressione caratterizzante sia infelice o frustrata dal fatto che sia una nanny, cioè una bambinaia, non abbia tanti amici e non abbia un marito.

Dalle informazioni raccolte da Maloof, attraverso le testimonianze delle famiglie presso cui era stata in servizio, emerge anche la figura di una donna libera, indipendente, forte, amante dei viaggi. Dai suoi “selfie” allo specchio, una persona che ha fatto del suo essere introversa la sua arte che ha custodito per sé, trasferendole allo stesso tempo il potere dell’immortali.

Potremmo immaginare, allora, lo specchio come uno dei più cari amici di Vivian, insieme, ovviamente, all’inseparabile macchina fotografica, a cui confidava pensieri, preoccupazioni, amori, gioie, sorpresa e tutto ciò che non riusciva a condividere con gli esseri umani.

Le mie mille me

Alzi la mano, allora, chi non abbiamo mai utilizzato lo specchio come valvola di sfogo, osservandosi mentre le lacrime solcano il viso oppure come strumento di autocompiacimento e apprezzamento di sé stessi. Forse non saremo stati in grado di immortalare il momento per paura di condividere fragilità o egoismo. Con i suoi scatti Vivian ci insegna che nel momento in cui pensiamo ciò, stiamo già commettendo un errore e lo specchio è lì pronto a ricordarcelo, nonostante ci abbia confermato un attimo prima di essere la più bella del reame:

Specchio, specchio mio riflesso parlami riconosco i tratti, siamo simili. Nel complesso ho già raggiunto il limite Non credevo fosse mai possibile svegliarsi la mattina senza ricordare un sogno. Salvami dalle mie mille me. “


Le mie mille me, Levante.

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