22 Novembre 2024
È già stata ribattezzata “l'altra” fase-2 del Piemonte, quella sanitaria, cruciale e imprescindibile quanto l'attesa ripartenza economica
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È già stata ribattezzata “l’altra” fase-2 del Piemonte, quella sanitaria, cruciale e imprescindibile quanto l’attesa ripartenza economica.

C’è da rimettere in piedi la medicina territoriale, crollata in piena pandemia sotto i colpi di venti anni di tagli al sistema sanitario e dell’approccio quasi esclusivamente ospedaliero scelto per contrastare il coronavirus, che ha potenziato le terapie intensive e -di fatto- lasciati al loro destino i medici di base. (Ne abbiamo parlato QUI)

Sanità, via alla Fase-2

Ad analizzare le carenze strutturali che l’emergenza ha messo in luce e ad indicare le soluzioni per la ripartenza sarà una “task-force”, nominata dal presidente della giunta regionale Alberto Cirio. (Leggi QUI)

Sarà guidata dall’ex viceministro della Salute Ferruccio Fazio, oggi sindaco di Garessio, e potrà contare sull’apporto, tra gli altri, di Giovanni Di Perri, responsabile delle Malattie infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia e del presidente dell’Ordine dei Medici di Torino Guido Giustetto.

«Il primo passo sarà quello di capire il contesto in cui ci stiamo muovendo e valutare la situazione piemontese anche confrontandola con quella di altre regioni, ad esempio il Veneto» spiega Giovanni Di Perri. «Dovremo procedere a una revisione delle nostre modalità di intervento in funzione della curva dei contagi, perché non si può continuare a programmare tutto solo in funzione del Covid-19».

I numeri in Piemonte preoccupano ancora: gli ultimi dati parlano di 185 pazienti guariti ma i nuovi casi sono più di cinquecento. Questo però non vuol dire che negli ospedali non si debba pensare a un graduale e prudente ritorno a qualcosa che assomigli alla normalità. A cominciare da un riallestimento dei reparti, rivoluzionati e ridisegnati per far fronte comune all’emergenza.

Attenzione ai focolai

«Ora bisogna controllare i focolai e va fatto in maniera costante – continua ancora Di Perri – perché il coronavirus è un’infezione subdola: spesso non si manifesta con sintomi evidenti e dunque è più facile che si diffonda, data la sua natura aerea».

Un problema in più in vista della fine del lock-down, della fatidica data del 4 maggio quando, gradualmente, si dovrebbe tornare a uscire di casa e lavorare. «Se da un lato è più facile, per lo meno in astratto, garantire la sicurezza di chi lavora nelle linee produttive dove è possibile attuare protocolli sanitari, il vero problema sono le attività frontali, i negozi, dove i contatti e gli scambi sono all’ordine del giorno».

Una grande mano potrebbe arrivare da un vaccino, di modesta efficacia, capace di indurre una risposta anche minima. «Sì, basterebbe – spiega sempre il professor Di Perri – perché un vaccino, per quanto blando, ma capace di evitare il passaggio evolutivo alla polmonite ci permettere di raggiungere il nostro obiettivo». «Se avessimo un preparato che ci toglie quel 5% di casi gravi e mortali noi avremo risolto il problema» perché il restante 95% dei casi sono infezioni che il sistema sanitario è abituato a gestire a casa.

Resta il fatto che il sistema sanitario si è fatto cogliere impreparato dall’arrivo del virus e ha dimostrato tutti i suoi limiti, a cominciare dalla risposta che la medicina del territorio non ha saputo dare. «Dalla Pianura padana alla Spagna, passando per la Gran Bretagna e oggi per gli Stati Uniti, tutti hanno commesso gli stessi errori perché il virus che stiamo combattendo è qualcosa di nuovo, atipico e altamente contagioso» conclude Giovanni Di Perri.

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