JB | L’hanno chiamata La notte della Repubblica quella sera del 9 maggio del 1978, il momento più buio degli Anni di Piombo, quando le BR portarono a compimento il loro attacco al cuore dello Stato, iniziato nel 1974 con il rapimento Sossi. Notizie prima frammentarie poi via via sempre più precise raccontavano all’Italia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in via Caetani a Roma. Il presidente della Democrazia Cristiana era stato ucciso dalle Brigate Rosse dopo cinquantacinque giorni di prigionia.
Quella stessa notte, a più di novecento chilometri di distanza da via Caetani, tra Cinisi e Terrasini, in provincia di Palermo, sui binari della ferrovia era morto il giornalista Peppino Impastato, dilaniato dall’esplosione di una bomba che lui stesso -secondo le prime, errate e depistanti ricostruzioni- avrebbe piazzato in un fallimentare tentativo di attentato. In realtà anche lui assassinato. Non dai brigatisti ma dai sicari del boss Gaetano Badalamenti, quel “Tano Seduto” tante volte denunciato proprio da Impastato dai microfoni della sua Radio Aut, il “giornale di controinformazione radiodiffuso”. Una morte passata quasi inosservata, relegata alle brevi dei notiziari radio e tv, occupati a raccontare la fine di Aldo Moro.
Due storie e due uomini, Aldo Moro e Peppino Impastato, accomunati dalla fine tragica e dalla passione per la verità e la giustizia. Due esempi di moralità e senso civico che oggi, a quarantanni dalla scomparsa, è giusto ricordare per mantenere viva, insieme al loro insegnamento, la loro coerenza di ideali.
«La mafia uccide e il silenzio pure» ha detto Peppino Impastato: una frase vera e attuale, nonostante sia passata ormai una generazione da quel 9 maggio del 1978. La mafia, in tutte le sue forme, continua a intimidire, minacciare e uccidere. Una ragione in più per non tacere e raccontare. Una ragione in più per cercare sempre la verità dietro l’apparenza e non dimenticare chi, come Impastato, ha rischiato e pagato in prima persona pur di far prevalere l’ideale di giustizia e legalità.
Un ideale che in un contesto ben diverso anche Aldo Moro aveva fatto suo. «La verità è sempre illuminante» era solito dire lo statista, quella verità che ancora non appare così limpida e trasparente appena si prova a capire perché Moro fu rapito, quando ci si interroga su chi davvero volle il rapimento prima e l’omicidio poi. E a chi quella morte giovò.
Al di là della verità processuale, di chi ha pagato e sta pagando per gli omicidi di Aldo Moro e Peppino Impastato, quarantanni dopo quella notte, la Repubblica ha oggi il dovere di non dimenticare e fare propri gli insegnamenti di due uomini che il destino ha accomunato, per gli ideali e per la tragica fine, in un lontano giorno del 1978.