Edmondo Bertaina da Gazzetta Torino
Nella città che ha come mitologia minore un sogno tardo ottocentesco, come la seconda linea della metropolitana, di cui ogni giorno si parla guardando più al cielo che alla terra, o al sottoterra, dove un giorno sorgeranno straordinarie stazioni anch’esse infiorettate da irrinunciabili opere di Nespolo, forse addirittura dotate da quell’invenzione avveniristica detta scale mobili funzionanti.
I torinesi che viaggiano per il mondo sanno che altrove esistono, e se si fermano, grazie ai prodigi della manutenzione, ritornano a muoversi. Ma accade in paesi lontani dove il concetto di civiltà ha sfumature diverse dalle nostre. Forse i figli dei nostri figli vedranno in età avanzata, la leggendaria linea due, quando ovunque sarà probabilmente sostituita da nuove forme di mobilità più rapide ed economiche.
Ciononostante il 2023 si chiude con tutte le speranze della città affidate o scaricate su quel miracolo europeo che porta il nome Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Un Santo Graal contemporaneo generoso e salvifico.
Un inatteso salto nella legislazione del passato è tra le eredità del dicembre appena trascorso. La città ripristina la pena capitale. Fu abolita per decreto nel 1947 e messa in vigore nel gennaio del ’48. A subirla saranno quarantanove fontane delle circa ottanta presenti in città.
Malgrado siano un bene pubblico, siano monumenti storici, facciano parte a tutti gli effetti delle attrazioni turistiche e per i residenti rappresentino qualcosa di più importante. La loro colpa, inammissibile e irredimibile è quella di non aver resistito stoicamente all’abbandono, all’incuria, al totale disinteresse e alla chiusura della loro funzione e linfa vitale: far sgorgare giochi d’acqua.
Per loro è previsto un ergastolo di lenta e costante decadenza, fino allo sfarinarsi della pietra, al crepacuore del marmo, al divenire materiale da costruzione per qualche garage. Le più fortunate saranno forse adottate illegalmente in qualche giardino privato dove magari torneranno a cantare la loro canzone d’acqua scrosciante.
Per alcune delle condannate hanno pensato un improvvido ed estremo saluto in stile cimiteriale. La trasformazione in fioriere. I fiori saranno obbligatoriamente finti, recuperati in qualche discount di prodotti cinesi, perché quelli veri richiedono manutenzione e soprattutto acqua. Proprio quella che il de cuius un tempo elargiva. In una città dove a stento si riesce a tagliare l’erba la cura di aiuole fiorite supera ogni ipotesi possibile.
Circola una leggenda che non ha però il supporto di prova alcuna. Riguarda l’incarico segreto commissionato ad alcuni figuri di requisire tra biblioteche, mercatini dell’usato, librerie e persino siti web, tutti i libri e le immagini in cui siano visibile le famigerate fontane nello splendore della loro attività. Ma è, appunto solo una leggenda.
Come quella di chiudere i corsi di laurea che si dedicano alla salvaguardia del patrimonio pubblico, al restauro, alla censura di tutti quei codici che noiosamente imputano agli amministratori pubblici il dovere di conservare, tutelare e possibilmente restaurare i beni materiali quali monumenti, stabili storici e persino fontane.
Possibile che non ci sia nessuna possibilità di restaurare le fontane più caratteristiche, che non vi sia modo di reperire risorse, che l’unico progetto sia lasciarle ammalorare e morire.
Ci appartengono, sono nostre, dicono la storia di un gusto, di un’epoca, portano un messaggio comprensibile a tutti. Sarebbe il caso che nell’acqua di una fontana l’amministrazione ci si specchiasse per ricordarsi chi è, quale compito e lascito intende consegnare ai posteri e in cosa merita impegnare i pubblici denari.