22 Novembre 2024
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di Luca Carra

Pubblicato il 29/09/2021Tempo di lettura: 6 minsSalute

  Leggere L’antidoto di Stefania Salmaso (Mondadori, 2021) è stato come rivedere il film di questo anno e mezzo di pandemia. L’ho dovuto leggere due volte, perché la prima avevo troppe interferenze con i ricordi, le preoccupazioni e la scarica di attivismo che ha spinto la nostra redazione a rincorrere ogni giorno qualche esperto in grado di interpretare quel che stava succedendo sotto i nostri occhi (Salmaso compresa, che nella stesura del libro si è avvalsa del contributo redazionale della nostra colaboratrice Cristiana Pulcinelli).
Da questo punto di vista la prima lettura del libro è stato un ripasso di quanto accaduto, del come e del perché abbiamo fatto quel che abbiamo fatto e soprattutto non siamo riusciti a fare quello che avremmo dovuto fare. Ma è a una seconda lettura che ho colto meglio le ragioni della nostra impreparazione – storiche, oggettive, non necessariamente frutto di colpe individuali – e il perché del titolo. L’”antidoto”, infatti, non rimanda in prima battuta ai vaccini che così tanto ci stanno aiutando in questo frangente. L’antidoto è la consapevolezza che la mossa vincente contro la pandemia sono i nostri comportamenti individuali, l’adesione alle regole, ma soprattutto la comprensione di quanto sta accadendo.

Il libro è lo specchio di chi lo scrive: Stefania Salmaso, come molti ormai sanno, non è solo una valente epidemiologa delle malattie infettive, capace peraltro di rendere chiari nel suo racconto concetti quali la “forza di infezione, l’ ”indice di riproduzione”, gli “eventi superdiffusori” e tutto quanto ci serve per capire la dinamica di Covid-19. Salmaso è stata anche a capo fino al 2015 del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute (CNESPS) dedicato proprio a rispondere alle minacce pandemiche, in particolare quelle influenzali. Quindi una donna di sanità pubblica che unisce alla lettura scientifica delle malattie quella organizzativa, politica e sociale. Il senso del lavoro impostato al CNESPS è infatti stato proprio quello di seguire un «approccio razionale su dati condivisi per coordinare le risposte alle pandemie». «La risposta – scrive l’autrice nelle ultime pagine del libro – deve essere collettiva, includendo le decisioni istituzionali, ma soprattutto quelle dei singoli cittadini».

Il libro ha il pregio di mettere in fila i motivi di questa carenza, esposti con equanimità ma non minore nettezza nel capitolo VII: “Le contromisure”. Il ventunesimo secolo – spiega Salmaso – si è aperto con un grande fermento planetario verso la preparedness. Dovevamo essere pronti, ma a cosa? Agli attacchi terroristici, agli incidenti industriali, ma anche alle pandemie, che tuttavia la sanità dei paesi avanzati tendeva a considerare eventi del passato e soppiantati una volta per tutti dall’emergere delle malattie non trasmissibili. A inizio millennio l’Organizzazione mondiale della sanità aveva più volte messo in guardia contro il ritorno di pericolose pandemie influenzali, e l’Italia si era adeguata con piani e strategie. Quando nel 2009 era stata dichiarata l’emergenza pandemica, il Paese non si trovava impreparato, tanto che per rispondere all’arrivo di H1N1 anche noi abbiamo ordinato 25 milioni di dosi di vaccino e poi effettivamente acquistati 10 milioni. In realtà l’attivazione del piano pandemico avvenne allora in condizioni di pandemia calante, i vaccini non vennero impiegati, la stampa si scagliò contro l’enorme spreco e la minaccia del virus influenzale derubricato a operazione di marketing farmaceutico. Da allora, spiega Salmaso, «il sistema di reazione alla pandemia divenne un argomento controverso, e parlare ancora di preparazione e aggiornamento dei piani era quasi considerato imbarazzante e guardato con sospetto».

L’Italia si girò dall’altra parte per occuparsi di cose giudicate più importanti. Imperversava la crisi economica, bisognava rendere il sistema più efficiente, ossia, come osserva maliziosamente l’autrice, «ridurre le risorse impiegate per raggiungere i risultati richiesti». Il rientro dalla spesa pubblica imponeva sacrifici, fra i quali il taglio, dal 2009 al 2017, di 46.500 addetti del comparto della sanità. Le cure primarie vennero progressivamente indebolite creando unità territoriali più vaste e con meno personale. Negli stessi anni i vincoli di bilancio spinsero al dilagare della sanità privata anche in un settore cui non è vocata, come quello della sanità territoriale. Anche il sistema di coordinamento Stato-Regioni e di governo complesso delle emergenze pandemiche venne prima indebolito poi disarticolato.

Arriviamo così, spensierati e con una sanità pubblica impoverita, al 30 gennaio 2020, quando dalla Cina viene lanciato l’allarme dei primi casi di pandemia di Coronavirus. Poco dopo l’OMS dichiara la pandemia. Sotto schiaffo, l’Italia risponde mettendo la gestione operativa dell’emergenza nelle mani della Protezione Civile. Ottima per i terremoti, meno per un fenomeno complesso come una pandemia, che – come osserva l’autrice – «è un evento le cui dimensioni cambiano continuamente, tocca tutte le zone geografiche, i soccorritori ne restano vittime a loro volta, e dura diversi mesi, durante i quali i problemi si sommano e si aggravano, e si diversificano le esigenze di assistenza, di prevenzione e di informazione della popolazione».

Sul punto non c’è bisogno di scrivere altro, l’abbiamo vissuto. C’è però un altro passaggio in cui il libro ci fa capire che quanto è successo non si può ascrivere alla sola miopia politica, che ha rappresentato piuttosto l’antefatto. Ha giocato nel nostro (e altrui) fallimento anche un’impreparazione cognitiva. Per quanto David Quammen nel suo Spillover sostenga che il mondo avrebbe dovuto aspettarsi proprio una pandemia da nuovo coronavirus, la percezione delle sanità pubbliche di mezzo mondo non era quella. Anziché spiegare tutto dopo che le cose sono accadute, Salmaso compie l’utile esercizio di raccontare cosa in effetti non si sapeva prima che accadessero. E se da un lato i modelli in uso per simulare la progressione delle pandemie influenzali insegnavano che dai primi casi in Cina l’incendio si sarebbe diffuso ovunque nel giro di due mesi, molte altre cose erano ignote. «Non si avevano dati precisi sulla contagiosità dei malati, non si sapeva se persone che non tossivano o non avevano febbre potessero essere portatrici dell’infezione, e, soprattutto, se fossero in grado di trasmettere il contagio. Dal nuovo virus ci si aspettava un comportamento simile a quello dell’influenza, che ha un tempo di incubazione breve (1-3 giorni) e in cui il maggior rischio di contagio è nei primi 3-5 giorni dall’esordio dei sintomi delle persone infette. (…) della presenza di infezioni asintomatiche nell’influenza non si parla mai».

Da qui le incertezze, gli errori di giudizio e le latenze che hanno impedito di evitare la prima ondata nelle regioni del Nord Italia con la soluzione ideale del contact tracing unita all’isolamento degli infetti e dei sospetti, e il doloroso ma efficace ricorso ai ripetuti lockdown.

L’Italia non è la Cina, e nemmeno la Corea del Sud, dove l’insieme di una buona intelligence, l’uso avanzato (e obbligatorio) delle app di tracciamento e la sospensione dei diritti alla privacy ha consentito una gestione più efficace della pandemia.

Certo è però che gli ostacoli oggettivi che hanno rallentato la risposta alla prima ondata in Italia non possono essere fatti valere per la seconda ondata, preparata in agosto, covata a settembre ed esplosa in tutta la sua virulenza fra ottobre e novembre 2020, e riportata almeno provvisoriamente sotto controllo grazie ai vaccini in questi mesi.

Quando tutto questo sarà finito, ci metteremo forse a contare i nostri errori, le nostre imprecisioni, i nostri giudizi azzardati. L’antidoto ci aiuta in questo esame di coscienza. «Negli ultimi cento anni le malattie flagello sono state fortemente controllate o eliminate, tanto che, almeno fino al 2020, molti di noi hanno pensato che l’epoca delle grandi pestilenze fosse definitivamente finita e che avessimo ormai il controllo sulle malattie infettive». Spesso il passato ritorna, anche se – come ricorda Salmaso – non più con i 50 milioni di morti della peste di Giustiniano, i 200 milioni dei quattro anni della peste del ‘300, e i 50 milioni della spagnola.

Ora, con tutto il male che possiamo dire dell’Antropocene, gli antidoti ci sono, ma bisogna saperli usare meglio.

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