Maria Ausilia Di Falco
Non è esisto un solo Battiato. Per questo accettare la sua perdita è ancora più difficile. Un Battiato fa per dieci. Per cento. Morto uno, ne piangi cento.
Dentro a Battiato c’erano mondi. Giochi e paradossi. Lui, così Dada, così nonsense, arte e negazione dell’arte, tutto e nulla, reale e surreale. Lui, così singolo e orchestrale, etnico e metafisico. Lui, così rivoluzionario pur senza armi, sempre zen. Maestro e discepolo inscindibilmente. Cresciuto calpestando il fumo spento delle ceneri artistiche degli anni post bellici, risorto a nuova avanguardia negli anni Settanta, ha sempre spazzato le polveri della convenzione facendo di tutto e di tutto fregandosene, creando un nuovo teatro di bellezza, di bellezza dell’assurdo. Battiato s’è divertito, sempre con classe e sapienza. E c’ha fatto divertire, costruendo una realtà pure laddove una realtà non esisteva.
Poeta della musica, semplicemente perché con la musica pensava, con la musica pregava, con la musica scriveva, con la musica viveva e dava da vivere.
Battiato era pop, un pop colto, elettronico, synth. Tutto tranne che finto rock. Aleatorio, seriale, armonico. Dissacratore, analizzatore, sperimentatore. Intellettuale e popolare, tradizionalista e avanguardista, siciliano e cittadino universale. Radicato nella sua terra eppur senza radici, lavico e marmoreo, vulcanico e … basta. Guai a chi gli toccava l’Etna, che era un tetto che si portava appresso, da adagiare su ogni casa in cui abitasse, come un cappello.
Battiato era Battiato, cento Battiato tutti in equilibrio tra loro: musicista, compositore, cantante, paroliere; filosofo, padre rimasto padre anche quando i figli son cresciuti, guru senza voler mai essere guru. Una persona unica e trina. Un po’ come dio.
E come si fa quando muore dio? Non ci sono istruzioni in merito, soprattutto se è un periodo in cui già dio è rimasto senza amici con cui conversare, avendo l’Olimpo perso Camilleri, Bosso, Sepúlveda, Morricone per citarne qualcuno.
Come si fa a dire addio a quei momenti che solo Battiato era stato in grado di plasmare? Ad accettare che quei pomeriggi caldi d’agosto mentre mamma riempiva bicchieri di granita alle mandorle muovendosi in cucina a botte di Centri di gravità, sono finiti per sempre?
“Perduto amor, perduto amor
So che mai più ti rivedrò
Perduto amor, perduto amor
Ma sempre a te io penserò
Se ieri ti tenevo sul mio cuore
Domani non so dove sarai tu
Il tempo lascia solo di un amore
Un poco di rimpianto e nulla più
I dolci sogni dell’età sognante
Splendidi fiori felicità
Dovevano sfidar l’eternità
E invece sono ormai svaniti già.”
Si accettano. Semplicemente perché quei momenti finiti, sono eterni. Non possono scomparire, no no; forse non li toccheremo più con mano, ma li sentiremo sempre tra i peli delle nostre carni arrizzate.
Francuzzo, allora, se n’è andato o no?
Non se ne può andare uno che non lascia risposte ma un metodo per cercarle. Non se ne può andare uno che tutto era tranne che monotematico. Non se ne può andare uno che trovava spiritualità ovunque. Uno che metteva la cura in ogni cosa. Un musicoterapico. Un invulnerabile, uno che non cercava approvazione né comprensione. Un uomo così convinto delle sue ricerche che non aveva paura di dovere aspettare dieci anni o milioni di kalpa per vedere fiorire le sue teorie.
Non se ne può andare chi è per tutti e per tutte le latitudini e per tutte le ere e i cicli cosmici del cinghiale bianco e per tutti i mondi lontanissimi e la luna indiana e le perenni strade dell’Est.
Non se ne può andare il Re del mondo.
Dunque, che se ne parli al presente.
Sarà stato un dono il suo, un talento innato o un’indole geniale coniugata a una fame smisurata di esperienza, una sconfinata cultura o tutte queste cose messe insieme, chi può dirlo. È tutto nascosto nelle sue note quello che proviamo e percepiamo, tutto impresso nella sua musica imperitura, che è una fabbrica di piccole emozioni che crescono, controverse, sconosciute, turbinanti, che si muovono nella pancia e ci fanno raggiungere picchi elevati di godimento estremo, a metà tra una sensazione terrena e un’estasi celeste.
Battiato spreme una specie di acidità nello stomaco, con quelle stonature che solo lui; quei suoni elettronici che frizzano il cervello e risvegliano le coscienze, quella follia che ci fa volare senza ali in un trambusto d’affetti. Ci porta in volo con lui a raccogliere i rumori dell’aria, gli stridori dell’anima per trasformarli in suoni a volte difficili da comprendere che mentre li ascoltiamo diciamo cosa diamine stiamo ascoltando, e più non capiamo e più diciamo però quanto è bello ne voglio ancora, ancora.
Mistero e magia.
Battiato anche se ha il mare dentro, un mare blu vivo blu assoluto blu senza tempo, è un lago salato nero. Nero liquido, moro cristallino, sfumato di rosso spumoso quando la bocca del Mungibeddu sputa lava e specchiandosi, riflette la sua luce sul pelo dell’acqua incorporea.
Noi grazie a lui, siamo carovanieri ieratici lungo quelle sponde, visionari seduti sui Treni di Tozeur ad ammirare il paesaggio dell’isola dei giardini e miraggiare la Fatamorgana sopra l’orizzonte durante Le sacre sinfonie del tempo
“Che siamo esseri immortali
Caduti nelle tenebre, destinati a errare
Nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione
Guardando l’orizzonte, un’aria di infinito mi commuove …
Che siamo angeli caduti in terra dall’eterno
Senza più memoria: per secoli, per secoli
Fino a completa guarigione.”
Fermo il corpo, cuore e mente sono sempre pellegrini nell’interiorità, superano il tempo e lo spazio danzando vestiti come bonzi a ritmi primordiali.
Può avere un erede dio?
Nessuno di noi vivi oggi, lo saprà. Un dio è colui a cui nessuno insegna le cose. Colui che ha imparato solo guardando attraverso gli occhi. E nessuno di noi resisterà tanto a lungo perché ciò accada nuovamente.
Cuccurucucu, balliamo. Non ci resta che ballare: giriamo come i dervisci rotanti, profumo di nuove albe.
Batti un colpo Battiato, battilo, quando ci verrai a cercare all’alba, tu che non ami chi tramonta, quando aliterai come vento tra i capelli di noi esuli sopravvissuti inchinati davanti al tuo spirito amico in un silenzio bagnato di sacro. Il tuo pensiero rimane tutto qui, sui granelli di questa terra amara. Batti un colpo quando ci verrai a trovare, e cantaci la verità in siciliano, in italiano, in turco, anche l’arabo va bene; saremo pronti a capire il linguaggio dei Sufi si spera, il linguaggio proprio dell’arte e della poesia ed entrare a corte degli imperatori.
Del resto, la vita -citando Luigi Lo Cascio “è uno scavo all’aperto di un nostro pensiero. E mentre racconta una storia, seppur a frammenti, accerchia e costringe la morte al di fuori del mondo… I nostri beni li dobbiamo ai morti. Da millenni respiriamo il loro cielo. E, alla fine della nostra vita, lasciamo meno di quanto troviamo. Noi che siamo gli incerti fantasmi dei loro confusi e antichissimi sogni, non possiamo evitare di vivere i morti. Solo i morti hanno in serbo letture per i giorni da scrivere ancora. Sono la nostra scala tra le radici e il cielo. Dal loro continente inesplorato, certo, non possono tornare, ma scagliano i cuori defunti in risorti messaggi. Anche adesso.”
Anche adesso, se pensiamo al tuo viaggio, sentiamo che in questa esigua stanza terrestre, tra noi e te, caro Battiato, tu sai esattamente cosa dire, nella tua lingua isolana, mentre noi restiamo muti.
Muti. Ma ti beviamo faccia al sole
col bicchiere di vetro inclinato verso i raggi
così,
con gli occhi dentro all’acqua
-che s’avvicina alle labbra,
ci pare di ingoiare luce magmatica e scaglie di infinito.