Luca Garnero
Il 26 aprile di 35 anni fa avveniva il disastro nucleare più tragico della storia dell’uomo. Il reattore numero 4 della centrale di Chernobyl, in Ucraina, scoppia provocando una deflagrazione pari a 500 bombe Hiroshima.
La stima delle vittime
Sono diverse le stime che registrano il numero di vittime causate nell’esplosione e non poche polemiche accompagnano lo studio del Chernobyl Forum pubblicato nel 2006 accusato di aver conferito dei dati sottostimati a causa di un conflitto di interessi. Di 30-60 mila persone parla invece lo studio Torch pubblicato nello stesso anno e di quasi un milione di morti quello pubblicato nel 2009 da un team di scienziati diretti dal biologo Alexey Yablokov.
Ciò che appare certo è che un numero indefinito di persone è stato vittima di un disastro che ha provocato conseguenze immediate, ma anche a medio e a lungo termine. Migliaia o decine di migliaia di persone sono state esposte ad altissimi livelli di radioattività a causa della nube tossica innalzata dalla centrale e migliaia sono i bambini nati con malformazioni.
Vittime sono anche i raccolti: l’area contaminata non si limita solo all’Ucraina ma si estende in tutto il mondo. Per due anni, il consumo di ortaggi e di alimenti freschi viene vietato dai governi europei, tanto che la gente è costretta all’uso razionato di verdura, all’acqua non potabile, ai costanti controlli medici. 2.800 km di acqua e le specie di flora e fauna risultano contaminati per sempre.
La zona rossa
“Red Zone” è infatti il nome assegnato all’area di 30 km disposta intorno al luogo dell’esplosione e la città ucraina di Pripyat, a pochi km dal sito contaminato, rappresenta oggi una vera e propria “città fantasma”. Sono solo i “Liquidatori”, le figure istituite dalle autorità sovietiche autorizzate a circolare liberamente nell’area radioattiva, che tuttavia non sono esenti dalle tragiche conseguenze: oltre 850 mila liquidatori solo quest’anno sono morti a causa dell’esposizione al materiale radioattivo, come si evince dai documenti segreti rivelati alla stampa.
Oggi l’intera area di Chernobyl, a causa dell’assenza di abitanti nei villaggi, è diventata una vera e propria riserva di biodiversità e di rewilding (ne abbiamo parlato QUI), in cui si possono trovare specie di animali e piante anche in via di estinzione.
In Italia si discute di scorie
In Italia invece il 20 gennaio si è svolto il primo incontro informativo del Tavolo di trasparenza e partecipazione nucleare. Una riunione che ha visto protagonisti i rappresentanti degli enti locali, i cui territori presentano aree ritenute idonee al progetto pubblicato dalla Sogin il 5 gennaio.
Si tratta di territori individuati nella Carta Nazionale perché considerati adeguati ad ospitare il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi nell’ambito del Parco Tecnologico. L’incontro si è quindi incentrato sull’illustrazione dei criteri che hanno condotto la società responsabile della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi all’individuazione delle aree adeguate.
Per l’assessore all’Ambiente della Regione Piemonte Matteo Marnati “sarà un importante momento di democrazia e un’occasione di massima condivisione e trasparenza per affrontare seriamente il confronto con gli enti locali e tutti i soggetti direttamente e indirettamente interessati alle scorie nucleari”.
Così recita il documento consultabile sul sito della Sogin: “Il deposito nazionale è un’infrastruttura ambientale di superficie dove saranno messi in sicurezza i rifiuti radioattivi italiani prodotti dall’esercizio e dallo smantellamento degli impianti nucleari e dalle quotidiane attività di medicina nucleare, industria e ricerca. La realizzazione del Deposito Nazionale consentirà di completare il decommissioning degli impianti nucleari italiani.
Non solo rifiuti
Insieme al Deposito sarà realizzato un Parco Tecnologico, un centro di ricerca aperto a collaborazioni internazionali, dove svolgere attività nel campo energetico, della gestione dei rifiuti e dello sviluppo sostenibile. Saranno costruiti in un’area di circa 150 ettari, di cui 110 dedicati al deposito e 40 al Parco. In totale saranno ospitati “circa 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività”.
Si stima un investimento complessivo di circa 900 milioni di euro che genererà oltre 4.000 posti di lavoro all’anno per 4 anni di cantiere, diretti (2.000 fra interni ed esterni), indiretti (1.200) e indotti (1.000).
Un coro di “no”
Sono stati individuati 8 luoghi idonei per ospitare il deposito nazionale delle scorie nucleari: due in provincia di Torino: Caluso,Mazzè, Rondissone e Carmagnola. 6 in provincia di Alessandria: Castelletto Monferrato, Quargnento, Fubine Oviglio, bosco Marengo Frugarolo, Bosco Marengo e Novi Ligure, Castelnuovo Bormida, Sezzadio. Da pressoché tutte le istituzioni locali arriva un coro di no.
Il presidente della regione Piemonte Alberto Cirio dichiara: “Trovo assurdo che una scelta di questa portata sia stata assunta senza un minimo confronto con la regione e i sindaci dei territori. È Inaccettabile che da Roma piovano di notte sulla testa dei cittadini piemontesi decisioni così importanti e delicate che riguardano le nostre vite“.
Un altrettanto secco rifiuto perviene dal comune di Carmagnola, e in particolare dalla sindaca Ivana Gaveglio, contraria a rendere l’area agricola l’ospite delle scorie: “Non siamo stati informati preventivamente. È una situazione assurda e siamo determinati a dimostrare la non idoneità dell’area individuata e a proteggere il territorio carmagnolese e i suoi abitanti“. La sindaca lancia inoltre l’appello “a tutte le forze politiche, associazioni di categoria e a tutti i cittadini di affiancarci in questa battaglia”.
Anche il presidente Coldiretti Alessandria Mauro Bianco esprime preoccupazione in merito: “La scelta del deposito deve tutelare la forte vocazione agricola del nostro territorio, dove vengono prodotti grano, nocciole, vini, ortaggi. Servono necessarie garanzie di sicurezza e forte attenzione al consumo di suolo”.
Non c’è dubbio: il Piemonte rifiuta la possibilità di diventare luogo del deposito nazionale.