Carlotta Viara |
Pompei non finisce mai di stupire.
La recente scoperta del meraviglioso thermopolium(circa un’ottantina quelli finora rinvenuti), già ribattezzato bottega dello street food, ce la fa “gustare” in tutto il suo sapore … culinario.
In aggiunta alle giare di terracotta incassate nella struttura: nove anfore, una scodella bronzea, due fiaschi, una pentola di ceramica; tutti contenenti residui di bevande e di cibi, ora all’esame degli addetti ai lavori.
In uno dei recipienti è già stato individuato un frammento osseo di anatra, in pendant con il dipinto del bancone splendidamente conservato e raffigurante, appunto, una coppia di anatre germane.
Il volatile era molto apprezzato dai palati dell’epoca; menù del giorno (di “quel” fatidico giorno): anatra arrosto con rape o anatra in salsa speziata? Due ricette popolarissime, annotate anche da Apicio (lo chef più acclamato dell’antica Roma) nel suo best seller “De re coquinaria”.
Rintracciati inoltre resti di fave, capretto e lumache di terra.
Cosa si mangiava a Pompei? Alimento principe dell’offerta gastronomica era il pane; lo testimonianoi reperti carbonizzati, gli affreschi, i bassorilievi.
In città operavano almeno trenta panificatori, che, con le loro macine in pietra lavica ed i loro forni h24, garantivano la produzione quotidiana di una decina di varianti, a seconda della farina impiegata (grano e farro) e della modalità di cottura.
Definiti “mangiatori di erbe”, i pompeiani non si facevano mai mancare la verdura.
In particolare, andava per la maggiore una varietà di cavolo, coltivato a km 0 negli orti urbani: consumato a crudo in una sorta di rudimentale pinzimonio (con asparagi selvatici, cicoria e lattuga), pare che, contrariamente alla sua nomea di indigesto, fosse leggero e ricco di proprietà lenitive per i disturbi di stomaco; lessato, era alla base di un piatto tipico: le foglie (in un trito di cipolla, coriandolo, cumino e pepe) venivano spadellate con un filo d’olio e sfumate con il passito.
La frutta era spesso servita come antipasto.
Molto amati i fichi, usati anche come condimento e fatti essiccare per il lungo inverno; diffusa la frutta in guscio, soprattutto mandorle e noci.
Il mare del golfo regalava in abbondanza orate, tonno ed alici (“fritte alla scapece”, una prelibatezza arrivata intonsa fino a noi); gli abitanti di Pompei avevano però un debole per i molluschi e per le murene, al punto che i ninfei di alcune domus erano stati riconvertiti in piccoli allevamenti ittici.
Dalle interiora del pesce azzurro veniva ricavato il garum, una salsa gourmet ottenuta dalla fermentazione degli scarti, macerati con aromi; ghiottoneria discutibile, valutata da Seneca una “costosa poltiglia di pesci guasti”.
Quanto alla carne, la cui alternativa era rappresentata dai più abbordabili legumi (la cosiddetta “carne dei poveri”), si mangiavano principalmente maiale e cacciagione.
Una pietanza tradizionale, “cavallo di battaglia” delle matrone campane:le polpette stufate con alloro e ginepro; uno sfizio elitario: il ghiro ripieno, ricoperto di semi di papavero (leccornia che compare anche nella famosa “cena di Trimalcione” del Satyricon di Petronio).
Uova e latticini (dalla delicata ricotta al potente formaggio all’aglio) completavano la dieta locale.
Dulcis in fundo: i datteri d’importazione che, disossati in farcitura di miele e pinoli, costituivano un goloso dessert di chiara contaminazione orientale e … di altrettanto chiaro apporto calorico.
I lauti pasti erano annaffiati da copioso vino, tanto corposo vino rosso.
Da alcuni acini d’uva (riesumati in prossimità della Villa dei Misteri) sono stati riprodotti sperimentali vitigni, reinnestati a fine anni ‘90 all’interno degli scavi, per ridare straordinariamente vita al nettare di due millenni fa, un vino unico al mondo: il Rosso pompeiano I.G.T..
Quando si tratta di Pompei non c’è davvero limite all’incanto.