Maria Ausilia Di Falco
Ci ricordiamo ancora di Leonardo Sciascia? Quello de Il giorno della Civetta, Il consiglio d’Egitto, di A ciascuno il suo, de Il mare colore del vino, gli zii di Sicilia.
Quello degli interrogativi, della politica, delle questioni etiche. Della riflessioni sulla vita del paese e il governo della polis . Quello “scassaminchia”, insomma.
Ecco. Sì, ce lo ricordiamo ancora.
Mica gli scrittori che restano impressi sono quelli che vincono il Nobel. Anzi, hanno fatto più rumore, quelli che non l’hanno vinto: Tolstoj, Nabokov, Virginia Woolf, Philip Roth, James Joyce, Camilleri che non ha vinto neanche lo Strega.
Perché il Nobel non si vince per la cultura, la peculiarità della lingua, il genio, l’estro, tanto meno per l’impegno politico. I premi si vincono per l’ossessione di fissare un pilastro nelle sabbie mobili dell’estetica. Per l’ingordigia di incoronare i nostri miti letterari e immortalarli nell’olimpo dei “grandi”.
Ma la letteratura non è calcio o basket. E un premio non avvicina la distanza tra gli stili che allontanano un poeta sudamericano da un fumettista giapponese, da un romanziere russo o un drammaturgo francese. Nella vita i paragoni non definiscono le persone. Soprattutto quelle impegnate politicamente.
Soprattutto Sciascia, che non voleva neppure essere definito intellettuale ma uomo di lettere. L’uomo che contraddisse e si contraddisse. Sciascia: lo scrittore politico d’eccellenza, più di Calvino, Vittorini, Pasolini. E non perché appartenesse a un partito o a un altro. Ma perché sollevava le questioni gravi, scandalose, il mal di vivere nei paesi, i rapporti guasti tra i cittadini e il potere, tra lo Stato e i diritti, il filo marcio tra la verità e l’impostura.
La verità
Guai a chi parla di verità. Lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità. Guai a chi scrive di verità.
Guai se chi scrive, ha sangue siciliano nelle vene e non ha paura di inventare un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei suoi romanzi; per indagare i rapporti tra la mafia e il governo, mettendosi al centro dei fatti come uomo impegnato.
Sciascia aveva solo un unico impegno: quello verso le sue convinzioni, quelle convinzioni che erano il simbolo di ciò che gli premeva sulla coscienza. Non usava mezzi termini, la sua era una posizione radicale. E quando si parla di diritti e legalità, le posizioni radicali sono scomode, signori miei, perché ci si schiera dalla parte delle minoranze. Specie se nell’ultimo quarto di secolo, le soluzioni giustizialiste contrapposte al garantismo, hanno avuto poco a che fare con la giustizia e molto a che fare con chi la giustizia ha provato a distruggerla.
Sciascia soffriva. Eccome se soffriva. Qualcuno pensa che si vive bene in una posizione scomoda?
Chi scrive per sé, scrive su di sé e contro di sé. Chi denuncia la realtà a cui appartiene, denuncia sé stesso. Chi nasce estraneo nel luogo di appartenenza, vive da estraneo, per sempre. Con dolore disapprova, con dolore condanna. Con dolore, Sciascia, soffriva il gioco del massacro di essere siciliano, perché le tracce di questo massacro le perseguiva da dentro. «Quando denuncio la mafia», diceva, «lotto contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Nel momento stesso in cui la giudico, mi sento responsabile atavicamente».
Nonostante le sue opere siano state puntualmente riconosciute come fondamentali, Sciascia rimaneva lo scrittore elegante, talentuosamente asciutto ma troppo, troppo politico. Quindi, troppo lontano dal Nobel.
Casa Sciascia a Racalmuto
E allora chissene
Sciascia non piace, e va bene. Alle accademie non piacciono gli “scassaminchia”, si sa. Ma tanto poi, chi lo legge scopre di averlo già tutto dentro la testa.
Andiamo a rileggercele allora, le opere di Leonardo. Abbiamo bisogno di garbo, di gentilezza, di prendere esempio da chi amava rispettare le regole. Abbiamo bisogno di studiare la società e pensare di nuovo che, anche nel nostro piccolo, possiamo migliorare l’esistenza di uno Stato Etico, Solidale e Giusto. Che possiamo farlo quello Stato.
Prendiamo in mano Il Giorno della Civetta, il libro da cui sono nate tutte le antimafie, il libro in cui Bellodi è già Falcone come Renzo è tutti i promessi sposi, Ulisse tutti i vagabondi, Pinocchio tutti i bambini del mondo. Bellodi, il personaggio che non è ispirato ma ispiratore, di tutta una folla di personaggi eroi che l’Italia conoscerà. Perché è con questo libro che l’Italia è stata arredata e noi scopriamo che la abitiamo da sempre. Noi, che diventiamo uomini grazie a questo breve manuale di umanizzazione.
Oggi non c’è bisogno del clamore mediatico, dei vincitori e dei vinti. Ne abbiamo abbastanza dei premi. Siamo noi che perdiamo o vinciamo quando nell’immaginario comune dei popoli, ci scolpiamo come i siciliani figli della mafia o i siciliani impegnati contro la mafia. I siciliani che lottano per la legalità, nel cerchio del loro incedere quotidiano, senza fare scrusciu, lasciando semplicemente segni.
Non c’è bisogno di Nobel per lasciare segni
Rincasò attraversando tutta la città a piedi … Venne il caffè e parlava ancora della Sicilia e dei siciliani … del mare colore del vino … “il siciliano che io sono, e l’uomo ragionevole che presumo di essere, si ribellano a questa ingiustizia verso la Sicilia, a questa offesa alla ragione,” pensò: e che in Sicilia le nevicate sono rare, e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentì un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia e che ci sarebbe tornato. “Mi ci romperò la testa” disse a voce alta. Mi ci romperò la testa.