Maria Ausilia Di Falco
Un amore felice. E’ normale?
E’ serio? E’ utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?
Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po’,
si fingessero depressi, confortando così
gli amici!
Sentite come ridono – è un insulto.
Sentite come ridono- è un insulto.
Queste parole della poesia Un amore felice di Wislawa Szymborska, sembrano scritte per Fryderyk Chopin, che della gente che rideva non sapeva cosa farsene e non avrebbe dovuto fingersi depresso agli occhi della poetessa. Ne troviamo conferma in una sua lettera:
La tristezza mi ha preso – perché?
Neppure la musica oggi mi consola,
è già notte tarda, e non ho voglia di dormire;
non so cosa mi manca
e ho già più di vent’anni.
Non so cosa mi manca.
Lo sappiamo noi, cosa ci manca nelle nostre giornate, quando dopo aver letto una poesia della Szymborska o dopo aver ascoltato un brano di Chopin, ne vogliamo ancora. Ci manca la loro poesia. Non possiamo più farne a meno, come una droga.
Drogati di parole per lei, drogati di note per lui.
Sono suoni diversi quelli che si fanno strada nelle nostre orecchie, eppure hanno lo stesso tocco: sicuro, impavido, sensuale, romantico. Maledettamente romantico. Sono suoni che scivolano nell’aria come petali di rose. Che si sciolgono in bocca come zollette di zucchero.
Non mi sentirò in colpa quindi, se dirò che ascoltare una poesia di Wislawa ci emoziona come ascoltare un notturno di Chopin. Ciò che Chopin inaugura con le note, il legato di dita, la Szymborska lo continua con le parole.
I loro legati ci legano.
Questo sound polacco ci arriva. Anche se a prestare la voce non c’è Wislawa in persona, ma il suo segretario, lo scrittore Michal Rusinek. Sì, perché lei non amava esibirsi, detestava la notorietà. Come Chopin
che si nascondeva dietro a uno spartito e preferiva far suonare i suoi brani al suo amico Liszt.
Ma non è solo questione di sound. Quello che di loro si attacca sulla nostra pelle è un senso di bellezza che possiamo cogliere ogni giorno nelle piccole cose, in mezzo alla tristezza dilaniante, ai problemi del mondo. E la semplicità con cui ci parlano è capace di sciogliersi nel nulla come di accendersi e prendere fuoco sulla pagina o sui tasti di un pianoforte:
Devo molto
a quelli che non amo.Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.
Questi versi bruciano gli occhi di chi legge.
Queste note sono fuoco soffiato all’orecchio di chi ascolta.
Sono canti che ardono nell’aria e si consumano sui nostri corpi.
Chopin ce l’hai sempre sotto le dita anche se non lo sai suonare. Wislawa sempre in bocca, anche se non la sai leggere. Il primo lo canti con le dita, la seconda con le labbra.
minuto 19.52
Li amo perché come loro io vivo nel mondo, ma un po’ dentro e un po’ fuori.
E perché nonostante tutta questa ridondanza, di loro non contemplo solo i suoni ma soprattutto i silenzi.
Chopin lo riconoscerei anche solo da una pausa. Come ho imparato a riconoscere la Szymborska dallo spazio vuoto che mette tra una parola e un’altra.
Non l’ho fatto apposta ad associare Chopin alla Szymborska. Sono questi spazi, queste pause che me li hanno fatti unire, come un gioco.
Un giorno, dopo aver letto una poesia di Wislawa mi sono messa a ballare, con grazia. Proprio come ballo, con grazia, tutte le volte che suono Chopin. E allora ho capito che avevano un ritmo in comune.
E in questo contrappunto è avvenuto il miracolo: il verbo si è rivelato in quanto parola, in quanto suono, in quanto silenzio originale. Forse, in quanto Dio?
Così è la poesia di Szymborska mia del mio cuore, originale. Cioè che sta all’origine di tutto. E cristallina, come il mare. Così è la musica di Chopin mio del mio cuore, originale. E cristallino, come nessun mare prima.
La Szymborska è stata definita la poetessa che mancava all’Italia. Ugualmente, Chopin era il poeta del pianoforte che mancava all’Italia nell’800. Due polacchi vs l’Italia.
Ma cosa ha la Polonia che l’Italia non ha?
Fossi stata Heinrich Heine, il poeta che viveva a Parigi travestito da improbabile giornalista per non perdersi un concerto di Chopin, avrei posto la domanda direttamente a lui. Ma non sono stata né Heine né una donna ottocentesca. Che io mi ricordi. Avrei potuto intervistare al giorno d’oggi la Szymborska, per porre la questione a lei. Ma non avrei ottenuto lo stesso risposta, odiava i giornalisti. Allora, armata di coraggio, come fossi la George Sand di turno, coi calzoni marroni, gli stivali da amazzone e il sigaro in bocca, qualche sera fa sono andata a un incontro col segretario personale di Wislawa, Rusinek, e ho chiesto a lui: “cos’ha la Polonia che manca all’Italia? Cosa c’è dentro l’animo di questi artisti? È la Polonia che li rende così?”
Ebbene, neanche lui mi ha fornito risposte. Con la stessa ironia disarmante con cui avrebbe replicato Wislawa mi ha detto, sicuramente non è la cucina.
Così mi son data una risposta io.
Gli italiani a volte si dimenticano di ballare.
I polacchi non prescindono mai dalla loro Ballata. Che Chopin ha traslato sul pianoforte inventando la Polacca. Perché quel ritmo che aveva dentro lo trasferiva sui tasti e poi lo ridava indietro con la musica, poetica, maestosa e carica di energia. Allo stesso modo Szymborska trasferisce il suo ritmo interiore su una pagina e ce lo restituisce con versi poetici, avvolgendoci in una danza di coppia.
Forse questi artisti non hanno altra patria che la poesia.
Non rispondono alle nostre domande perché sanno solo scrivere e suonare. Il tempo incalza, scrivo. E infatti hanno fatto del diktat di Goethe, il loro modus vivendi: crea artista, non parlare. Hanno messo sotto esame le cose che non potevano muoversi da sole e le hanno fatte camminare. Chopin su uno spartito, Wislawa su un foglio, dove facendo muovere oggetti inanimati come sedie, armadi, cestini, diceva: neanche il signor Newton ha a che fare con tutto questo. Lasciate stare la fisica, la vita è poesia.
La vita è una ballata, dico io.
E balliamo allora.
Se ballassimo un po’ di più?
Come Matilda in questo video: