Carlotta Viara |
Settembre, andiamo, è tempo di … vendemmiare.
Nelle nostre campagne, gli ordinati filari dei vitigni, appesantiti dal carico dei grappoli, attendono di essere alleggeriti con il rituale della vendemmia.
Appuntamento immancabile della tradizione contadina, anche se di piedi che pigiano, in un gran rispolvero di danze e canti popolari intonati al suono delle fisarmoniche, non se ne vedono più.
Langhe, Roero, Monferrato (per limitarci – un po’ campanilisticamente – al “nostro” Piemonte): tutti pronti, di collina in collina, all’uva che si fa vino.
Cerimoniale antichissimo (celebrato dai latini con la festività dei Vinalia), affonda le sue radici nel mito di Dioniso (che i romani ridenominarono Bacco – dal greco bakchos, clamore -) ed Ampelo (da ampelos, vite).
Si tratta di una mitologia “minore”, da cui traspare il lato sconosciuto della chiassosa divinità, ben lontano dagli eccessi dei misteri dionisiaci (ed ancor più concettualmente distante dallo “spirito dionisiaco” – in antitesi con quello apollineo – su cui Nietzsche ha fondato la sua fortuna filosofica).
Tutto ha inizio quando il baldanzoso dio, nelle sue scorribande “bucoliche”, tra salti e capriole, s’imbatte nel satiro Ampelo, aitante giovinetto di cui si innamora.
L’idillio tra i due, così vivace e giocoso, suscita l’invidia di Ate, che induce l’irruente Ampelo a cavalcare un toro, con mendaci rassicurazioni circa la docilità dell’animale.
Accade l’irreparabile: il toro si infuria, disarciona il fanciullo e lo trafigge a morte.
Davanti al corpo esanime dell’amato, Bacco, dilaniato dallo strazio di non poterlo seguire (l’accesso all’Ade gli è precluso in quanto immortale), “impara” la sofferenza e, per la prima volta, piange.
Le fitte lacrime, nel mischiarsi al sangue versato a terra, si trasformano in un nettare, capace di obnubilare la memoria del dolore e di riconvertirla in gioia.
Il liquido miracoloso fertilizza il suolo: spuntano germogli che diventano tralcio di vite feconda, dispensatrice di risa ed allegria.
Da quel giorno Dioniso, nelle raffigurazioni scultoree e pittoriche (da Prassitele a Caravaggio), impugna il tirso (il bastone di legno avviluppato dai pampini) e/o innalza, con gesto liberatorio, il cantaro (la coppa contenente la portentosa miscela); talvolta, indossa una maschera: un po’ perché è anche dio del teatro ed un po’ – è bello immaginarlo – per testimoniare che il vino svela il volto nascosto della realtà (“in vino veritas”).
“Dono” degli dei agli uomini per alleviarli dagli affanni dell’umana condizione, questo piacere conviviale, se assunto – beninteso – con moderazione, regala una sana euforia, una piccola estasi salvifica, un ritrovato entusiasmo (= “con il dio dentro”) di vivere.
Quello stesso entusiasmo che ha permesso a Bacco di superare il lutto per la perdita di Ampelo e di “ricominciare”, andando a recuperare Arianna a Nasso per poi brindare insieme al: “Ciò che ha esser, convien sia. Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza“.