Maria Ausilia Di Falco
Eravamo musicisti abbastanza da credere che la musica non ci avrebbe cambiato mai.
Ma nessuno di noi era abbastanza Ezio Bosso, da credere che la musica ci avrebbe cambiato eccome, sempre in meglio.
Al pianoforte, accanto a noi c’era lui a ricordarcelo, il nostro Maestro. Ci ricordava quanto la musica rendesse tutti belli: noi che suonavamo, gli altri che ascoltavano, lui che dirigeva tutti.
Sì, perché Ezio Bosso non era solo un musicista fuori dal comune, era uno che la musica ce l’aveva in testa e scritta sulla pelle; che rotolava note sugli spartiti con una facilità divina, componendo brani sopraffini che sapevano di passato quanto di contemporaneo, di Beethoven –il suo papà musicale, quanto di Morricone. E in mezzo ci passava una cultura vastissima. Era uno che dirigeva gli studenti, le orchestre, le folle. La vita.
Lui stava al centro, equidistante da tutto. Osservava, studiava e si nutriva di bellezza. Poi si metteva in cammino –non ha mai smesso di camminare, sul palco della vita come sui tasti- e la emanava, elargendola con dolcezza.
Lui, che invece di esaltare le proprie capacità e i propri talenti, di ostentare la sua bellezza fisica ed interiore e lasciarsi assorbire da fantasie di successo, da smanie di esibizionismo e fame di ammirazione, ha ingrandito solo i suoi sentimenti di amore verso il mondo. Non per competere con gli altri e raggiungere i propri scopi, ma per fare in modo che l’amore e la magia della musica raggiungessero più persone possibili.
Quante volte capita di trovare in un uomo tanta bellezza, nel corpo e nella mente insieme?
Eppure, lui, il bello e impossibile, avrebbe potuto rischiare di trasformarsi in un vanitosissimo cigno, in un Narciso d’eccellenza. Sarebbe stata la tentazione di tanti. E invece, si è governato al punto da non diventarlo. Anzi, quasi si è immolato per noi, rendendosi l’anti-narciso più puro. Che non si pone in una situazione di adorazione del sé, non si contempla. Si vuole solo bene, si innamora del suo essere musicale per fare innamorare gli altri del Dio Musica e non dell’uomo Bosso.
E ci siamo innamorati tutti di questo strano essere sovrumano. Nessuno di noi saprebbe scindere la sua musica dalla sua persona. I gesti che faceva dai suoni che produceva.
Bosso era bellissimo.
Anche da studente, attirava l’attenzione. Un pomeriggio suonava in differita in conservatorio, e qualcuno entrò nell’aula per dirgli che da lontano sembrava molto bravo, da vicino, anche molto bello. Era John Cage. Poi, c’è stato un tempo che si chiamava Xico e suonava il basso negli Statuto.
Infine, troppo classico per una band Ska, ha iniziato a girare il mondo da solista concertista e dal Messico si è esibito a Buenos Aires, alla Carnegie Hall, a Sydney, in Giappone come a Parigi, a Roma, nel suo Regio di Torino. Non aveva neanche trent’anni, agli esordi.
Quello che ha conosciuto l’Italia, quel pianista eccezionale spuntato in tv al Festival di Sanremo su una carrozzina, che ha fulminato il pubblico a cuore aperto, è solo l’ultimo tassello di quello che è stato Bosso prima.
Un giorno eravamo tutti seduti in cerchio attorno a lui.
E i tasti del pianoforte hanno preso a trasformarsi in denti neri. Cadevano a terra a uno a uno. Da lì a quando sarebbe caduto l’ultimo tasto, il tempo per studiare insieme sarebbe stata una piccola clessidra a scadenza veloce.
Il dente nero della malattia ci avrebbe portato via Ezio a breve, e per sempre.
Noi non eravamo che semplici studenti ed Ezio non era che il nostro Maestro. Nessuno di noi, durante la prima lezione avrebbe potuto immaginare che quel master sarebbe stato un brevissimo viaggio di solo andata. Intanto lui non voleva che lo chiamassimo master. Era uno studio aperto, ZusammenMusizieren, si imparava tutti insieme, chi suonava e chi ascoltava, dentro a un salone come fuori, nel giardino di una villa.
Ovunque ci trovassimo, da Palazzo Barolo a Torino a Villa Pennisi ad Acireale, ci connettevamo alla sua lunghezza d’onda: la musica era una cosa che andava presa seriamente e che doveva trascinarci in un mondo sconosciuto dove le emozioni potevano scorrere continue su di noi, senza interruzioni e renderci veicoli emotivi. Era la musica che doveva suonarci, non il contrario. Era il tocco a migliorare la tecnica non il contrario. Era la condivisione a renderci musicisti.
Il musicista, che deve sentirsi triste se gli altri hanno bisogno di tristezza. Che è consolatorio se la vita chiede consolazione. Arrabbiato se la gente ha bisogno di sfogarsi. Felice se felice diventa chi lo ascolta suonare.
I concetti di Ezio Bosso, per noi animali da conservatorio erano rivoluzionari. Noi, abituati a suonare sempre con uno spartito davanti, ad alienarci con ore e ore di tecnica. A scordarci del potere sconfinato della musica di emozionarci per emozionare. Pareva impossibile fare questa rivoluzione al pianoforte. Ma lui era caparbio, un Maestro con la emme maiuscola. Parlava poco e ultimamente, male. Ogni parola gli costava una fatica immane, ma ci faceva capire come dovevamo cambiare approccio, toccando i tasti del pianoforte e spingendo tutto il corpo sui tasti. Scatenava un moto dentro di noi, ci rivoltava. Sedevamo alla tastiera in un modo e ci alzavamo in un altro; l’atmosfera nell’aria cambiava forma e tutti potevamo toccare con mano una qualità musicale diversa dal solito. Cellulari e videocamere spente, pena un gran cazziatone.
Per Ezio non esisteva suonare un brano senza conoscere la storia del compositore che l’aveva scritto, il periodo di stesura, l’armonia di cui era composto. E così, prima ci faceva spiegare ai presenti tutti i dettagli dell’opera, poi se era convinto, ci diceva di metterci al pianoforte e suonare.
“Devi sorridere mentre suoni” mi diceva sorridendo, “la musica passa anche da tutte le espressioni che fai.” E sorridendo, una volta mi ringraziò. Io, che a quel concerto avevo deciso di suonare per prima, terrorizzata dal pubblico e desiderosa solo di togliermi il pensiero, di darci un taglio con l’ansia. E invece, all’ultima nota –erano le Variazioni su una Ciaccona, di Casella- mentre gli altri applaudivano, lui si avvicinò per sussurrarmi: “sei stata molto generosa, grazie.”
Lui ringraziava me.
Quando ero io, che invece di piangere dalla commozione, avrei dovuto ringraziarlo pubblicamente.
Perché ero io che dovevo dire grazie ai suoi consigli maestri che mi avevano insegnato a togliere le ansie dalla mente e lasciare scorrere solo la musica nelle mani. Aveva ragione, se ti predisponevi al miracolo, il miracolo avveniva: bastava abbassare il primo tasto e la musica ti guidava. “Solo gli avari di emozioni e gli ingordi di applausi non trasmettono niente. A niente serve il virtuosismo se non si è generosi di emozioni.”
La malattia non ha mai mandato in frantumi i sorrisi e la saggezza di Bosso. Gli ha tolto a poco a poco un bel po’ di muscolarità e di serenità –sfido chiunque a convivere giorno e notte con un corpo che non risponde più ai comandi, in una dimensione di dolore perenne. Ma non gli ha mai tolto l’intelligenza musicale (se vogliamo riferirci a Gardner, Bosso di intelligenze ne possedeva sette e anche più), l’ironia, la cultura sconfinata e una conoscenza smisurata del mondo. La caparbietà, la grinta, la forza. E la bellezza. Che lo ha mantenuto intatto nella malattia, gli è tornata utile. Chissà come gli si sarebbe rivoltata contro, se invece fosse stato proprio quel Narciso che non è voluto essere.
Adesso l’ultimo tasto è caduto. Lo sapevamo tutti. Ma nessuno è mai pronto al distacco. Soprattutto al distacco da uno come lui, che ha prolungato la vita oltre il limite stabilito perfino dalla scienza.
C’è silenzio nell’aria e se le lacrime avessero un suono, oggi il mondo sarebbe una mega orchestra lacrimosa vivente. In onore di Ezio, Ezio Bosso.
Ma lui se n’è andato in un crescendo rossiniano di sorrisi e affetto. Non si è mai pianto addosso, ci ha insegnato a sorridere. E sorridiamo tutti allora. Per fortuna basta fare play e la sua musica c’è ancora.
Quella dal vivo se la godono gli angeli. Lui che dirige l’orchestra del Paradiso e anche il Padre eterno. Sa suonare il Padre eterno, Ezio? Se non sa suonare insegnaglielo tu.
Solo tu ce la puoi fare, testone come sei.