Alessandra Ferrara
«Quanti anni hai? 10, riesco a contarli anche con le dita delle mani!». «Ti è chiaro quanto conti il nostro prof in ambito di ricerca?»
Da questi due semplici esempi è possibile intuire il doppio significato assunto dal verbo contare nella sua natura transitiva o intransitiva. Cosa succede, allora, quando contare assume contemporaneamente i suoi due significati, perché sai fare bene i calcoli e hai ottenuto una certa importanza nel tuo campo, tale da aver cambiato le sorti della storia dell’umanità?
Semplice, ti chiami Katherine Johnson. Sei una matematica del gruppo di calcolo della Nasa, ti è stata assegnata una missione, anzi “La” missione: portare il primo uomo sulla Luna e farlo rientrare sulla Terra sano e salvo. Caratterista non ultima per importanza, sei nera ed inizi la tua carriera nell’America di fine anni 50, quando le leggi razziali impedivano ad un bianco ed un nero di utilizzare lo stesso distributore del caffè o la stessa toilette!
Spegnete le luci, prendete i pop corn: si sta per decollare
Hampton, Virginia 1961. Tre donne nere sul ciglio di una strada di campagna deserta. La loro macchina in panne. L’arrivo di un poliziotto bianco (che fortuna!). Con la sua aria superba e di superiorità chiede loro i documenti, quasi come si rivolgesse alle peggiori assassine. Poi la strana sorpresa: ha di fronte tre dipendenti della Nasa. Il suo volto di colpo dai colori del disprezzo sfuma verso quelli dell’ammirazione e della quasi devozione.
Si apre così il film, pluri candidato ai Golden Globe ed agli Oscar, dal titolo Il diritto di contare del regista Theodore Melfi del 2016.
Quelle tre donne non erano di certo tipe qualunque: il futuro ingegnere Mary Jackson, la programmatrice autodidatta Dorothy Vaughan, e non una matematica a caso, ma la nostra Katherine.
Tre cervelli, tre donne, tre storie, tre amiche. Le loro capacità, le loro intuizioni, i loro diritti, le loro libertà.
Siamo negli anni in cui gli Stati Uniti e la Russia erano in un costante tête-à-tête per la conquista dello spazio. Una gara all’ultimo sangue in cui ognuno voleva essere primo. I russi erano già riusciti a mandare nello spazio un loro astronauta. Gli americani percepivano questo “ritardo” come una sconfitta. La Nasa, pertanto, aveva bisogno di una mente per cui la geometria, soprattutto quella euclidea, fosse il suo principale nutrimento. Tutto poteva aspettarsi, tranne l’arrivo di una donna, addirittura di colore. Shock. Non era concepibile una tale combinazione, eppure si dimostrò quella vincente. A volte il calcolo della probabilità disarma anche il più fine degli statistici.
Conta saper contare
È difficile immaginare ed immedesimarsi in una bambina che, oltre a giocare con le bambole di pezza, trascorreva il suo tempo divertendosi a risolvere le più disparate operazioni matematiche. Non parliamo di semplici somme e sottrazioni, ma di equazioni di secondo grado che anche un comune liceale, a volte, ha difficoltà a risolvere. Katherine amava giocava con i numeri: nota è la dichiarazione in cui, lei stessa, afferma di aver contato di tutto nella sua vita. A soli 18 anni, infatti, aveva già conseguito una laurea in matematica alla West Virginia State College. Arriva al gruppo di calcolo della NASA quasi per caso, dopo aver intrapreso la carriera di insegnate. Era già sposata, aveva ben tre figlie: un’atipica donna nera per quel tempo. Respirava aria di indipendenza: si sposerà addirittura per la seconda volta, dopo la morte del marito.
Inizialmente si occupava del calcolo delle traiettorie per i programmi spaziali insieme alle altre colleghe del gruppo, poi la necessità di qualcuno che fosse esperto in geometria analitica. Chi se non Katherine? <<Muovi la matita alla velocità del cervello>>, recita la sua amica Doroty in una scena del film. Da quel momento iniziò a lavorare al calcolo della traiettoria per il primo lancio spaziale umano americano: la geometria euclidea venne in suo soccorso. La parabola poteva essere la giusta soluzione. Se fosse nata in un’altra epoca Katherine avrebbe di certo avuto l’approvazione di un’altra grande matematica, quasi dimenticata, Ipazia di Alessandra vissuta intorno al 370 d.C.: sarebbero diventate buone amiche!
Con la missione Freedom 7 del 1961, Alan Shepard fu così inviato nello spazio. L’anno successivo contribuì attivamente al lancio in orbita dell’astronauta John Glen, il quale non partì finchè i calcoli effettuati dal calcolatore IBM (International Business Machine) non fossero verificati direttamente da Katherine. Non ebbe alcuna paura nel confrontarsi con una macchina, con un essere non animato ma dotato di un’intelligenza (limitata a) anzi diede ancora una volta prova della sua precisione e del suo talento.
Atterraggio lunare
Non bastava solo saper contare. Bisognava andare oltre il semplice numero: siamo tutti in grado di scriverli. Da soli non hanno alcun significato. Interpretarli, dargli un senso logico è tutta un’altra cosa. Katherine sapeva guardare oltre il simbolo: l’idea di scoprire la matematica che ancora non esisteva era lo stimolo per poter risolvere problemi in cui le variabili in gioco, non erano semplicemente traiettorie, ma velocità, materiali, temperatura, pressione, orbite dovevano essere in grado di portare a termine la missione. Ciò non implicava il semplice lancio nello spazio di un uomo, ma soprattutto il ritorno sulla terraferma dell’astronauta. Lei stessa dichiarò di guardare oltre l’esattezza o l’errore delle equazioni dei suoi colleghi ingegneri: capire la logica della scelta era il segreto.
In questo modo, il mondo intero nel lontano 20 luglio 1969 ha potuto sentire dalle radio o dalle tv della propria abitazione, o automobile la notizia del primo uomo atterrato sulla Luna: se la traiettoria di atterraggio non fosse stata quella, Neil Armstrong non avrebbe potuto passeggiare sulla superficie lunare e la missione Apollo 11 sarebbe stata ricordata come il più grande disastro promosso dagli Stati Uniti.
Quanti potevano immaginare che quella impresa tanto sentita dagli americani portava la firma di una donna, nera della Virginia? Forse lo 0,1% della popolazione.
Missione compiuta
33 anni di lavoro alla Nasa, una Medal of Freedom ricevuta dal presidente Obama nel 2015, Katherine ha di certo compiuto la sua missione di donna, madre, matematica e soprattutto di essere umano, dotato come tutti (bianchi, neri o di qualsivoglia colore) di sentimenti, di ragione e di intelligenza. È riuscita a mettere il suo talento davanti ad ogni pregiudizio, ad ogni dubbio o perplessità dei più diffidenti. Con la sua determinazione è riuscita a cambiare le regole del gioco per lei ma anche per tante donne dopo di lei.
Si è spenta lo scorso 20 febbraio all’età di 101 anni portando con sé l’importanza di essere ricordata per sempre per la sua estrema bravura nel saper contare come donna e come scienziata.