Alessandra Ferrara
Il mese di maggio in Sicilia è sempre stato l’antipasto dell’estate: il primo vento di Scirocco ed i suoi 30° all’ombra, il profumo delle rose e delle calle; u scruscio, il rumore del mare non più assordante inizia a diventare una dolce ninnananna. A maggio in Sicilia c’è ciauru, odore, di vita, ma c’è anche puzza di rabbia, giustizia, morte evocato dal rosso porpora delle ciliegie, di stagione, ormai mature.
Era il 23 maggio 1992 quando il giudice Giovanni Falcone, insieme alla moglie e agli agenti della scorta furono uccisi dalla mafia nella strage di Capaci.
Era la sera del 9 maggio 1978 quando Felicia Bartolotta Impastato aspettava, insieme al figlio Giovanni e la fidanzata, l’arrivo del suo primogenito Peppino per cena. Peppino a volte faceva tardi la sera: il suo impegno politico e sociale nella lotta alla mafia riempiva totalmente le sue giornate e la sua Radio Aut era una fedelissima zita (fidanzata) per cui non esisteva orario!
Quella sera, però, Peppino non tornò mai più in quella casa di Cinisi, piccolo paese a pochi chilometri da Palermo, distante solo cento passi dall’abitazione del boss Gaetano Badalamenti, meglio noto come Tano Seduto agli ascoltatori della radio.
Da quella sera Felicia diede inizio alla battaglia della sua vita: gridare al mondo intero che suo figlio era stato ammazzato dalla mafia.
«E quale fussi la dignità: stare ‘nchiusa a casa sapendo che Giuseppe me lo hanno ammazzato? […] Me figghiu u né morto di malatia: l’ammazzaru i mafiusi». Risponde così Lunetta Savino, interpretando Felicia Impastato nello sceneggiato andato in onda sulla Rai a lei dedicato, all’affermazione «I figli si piangono con dignità a casa» posta da una compaesana “preoccupata” per lei, in una scena del film.
Non ho paura
Il doppio cognome Bartolotta Impastato pesava sulle strette spalle di Felicia: «Quando mi sono fidanzata con lui non ne capivo niente di mafia, altrimenti non lo facevo quel passo. Io gli amici suoi a casa mia non li ho mai fatti entrare» confida al maresciallo dei Carabinieri durante un frame dello sceneggiato.
Felicia, infatti, aveva spostato per amore Luigi Impastato: per lui aveva addirittura lasciato l’uomo a cui il padre la aveva promessa in sposa poco prima delle nozze. Un atto di coraggio e fermezza contro ogni pregiudizio a cui poteva essere sottoposta una donna siciliana degli anni ’40. Con il tempo, però, si rese conto dell’identità degli “amici” del marito e delle attività illecite svolte: gli stessi che minacciavano Luigi perché aveva un figlio che lottava contro la mafia. Un figlio che credeva fortemente nei propri ideali portandoli avanti senza paura. Quegli stessi amici che le uccisero il marito ed il figlio.
L’assenza di paura e la determinazione erano caratteristiche che Peppino aveva, di certo, ereditato da sua madre. Felicia non si era fatta intimorire dal contesto sociale in cui viveva caratterizzato da “non vedo, non sento, non parlo”, da giri larghi per strada pur di evitare il passaggio davanti casa sua.
Anzi, in risposta alla chiusura mostrata dai suoi concittadini, aveva aperto la sua casa a chiunque avesse voluto conoscere la storia e la verità sul figlio: «Chi vuole sapere la verità, veni cca. Da oggi la porta di casa rimane aperta» recita in un’altra scena del film spalancando le imposte della porta-finestra.
Nasce così la Casa Memoria di Peppino Impastato a neanche un anno dalla sua morte.
In guerra per verità ed amore
Chiunque si chiedeva dove Felicia trovasse tutta quella forza per combattere: dallo stesso figlio Giovanni, che aveva incoraggiato a sposarsi nonostante il lutto, agli amici più cari di Peppino.
Dimostrare la verità sull’omicidio del figlio era la sua arma da combattimento: aveva imposto la sua partecipazione nelle indagini fai da te condotte da Giovanni e i ragazzi.
Nella scena del film in cui il professore di medicina legale rivela loro come era stato probabilmente ammazzato Peppino (riempito di botte prima e fatto saltare in aria sui binari della ferrovia dopo) lo sguardo di Felicia è quello di una donna che in cuor suo conosceva già la verità. Non manifesta alcun segno di cedimento, anzi, ancora una volta prende in mano la situazione decidendo di costituirsi parte civile.
Dopo gli iniziali depistaggi delle indagini, l’archiviazione e riapertura del caso, il prezioso sostegno dei magistrati di Palermo come Rocco Chinnici (uccisi nel frattempo anch’essi dalla mafia) arrivarono i primi segnali di svolta da parte della giustizia: l’arresto di alcuni esponenti del clan di Badalamenti.
Fu un giorno importante per la famiglia Impastato ridotta ormai a due componenti: «È da un po’ di tempo che non ti vedevo sorridere così!» dice il figlio Giovanni ala madre nel momento dell’arresto. L’espressione di felicità, mista a compiacimento per la giustizia fatta (anche se in parte) non concedono parola a Felicia che, come si percepisce dalla scena del film, sta gustando quel dolce sapore di verità.
La svolta, nella vita di Felicia (e quindi nel caso Impastato), avviene con il pentimento di alcuni mafiosi che iniziano a fare il nome di Badalamenti come mandate dell’omicidio di Peppino.
Il film, infatti, inizia e si conclude nell’aula del Tribunale di Palermo: Felicia, interrogata dai magistrati senza alcuna esitazione, anzi con grande freddezza nei gesti e sicurezza negli occhi, sorda quasi alle voci dei pubblici ministeri, punta il dito contro Badalamenti riconoscendolo come autore della morte di Peppino.
Guardando il figlio Giovanni con un grande sorriso sulle labbra, Felicia esordisce: «Ve lo avevo detto che stu giorno veniva».
Il giorno della verità era finalmente arrivato, dopo una lunga attesa durata quasi 20 anni dalla scomparsa di Peppino.