JB | Di sicuro c’è solo che è morto. Pier Paolo Pasolini è stato ucciso il 2 novembre del 1975 all’idroscalo di Ostia, massacrato a calci e poi investito dalla sua stessa auto, guidata dall’assassino -o dagli assassini- in fuga.
Di sicuro c’è anche una verità processuale, che ha condannato il diciassettenne Pino Pelosi, colpevole per sua stessa ammissione di aver ucciso lo scrittore dopo un incontro sessuale a pagamento. Quello stesso ragazzo però, trentanni dopo, si è proclamato innocente e ha accusato tre uomini. Tre sconosciuti quella notte di novembre all’idroscalo avrebbero prima aggredito Pasolini e poi minacciato lui, costringendolo al silenzio.
Aggressione e legittima difesa, agguato politico degenerato in omicidio oppure vera e propria premeditazione. Da quarantatré anni il movente dell’omicidio di Pasolini rimane relegato al campo delle ipotesi. Un insulto per chi per tutta la vita ha cercato di mettere in fila i fatti, di recuperare una logica nella società, di spiegare il mondo che lo circondava.
E lo ha fatto da poeta civile, da poeta contro, alla ricerca del vero perché incapace di accontentarsi della cittadinanza politica e letteraria che l’Italia degli anni Sessanta e Settanta poteva offrirgli.
«Abbiamo perso prima di tutto un poeta e di poeti ne nascono soltanto tre o quattro dentro un secolo» ha detto Alberto Moravia ai funerali di Pasolini.
Un poeta che intendeva la poesia come ricerca del vero, poco importa se declinato in forma di lirica, di romanzo o di pellicola. Quello che contava davvero era raccontare la realtà, già allora in veloce cambiamento da un punto di vista che non poteva che risultare scomodo.
Scomodo come gli Scritti Corsari sulle pagine del Corriere della Sera, come l’Io so del suo Romanzo delle Stragi. Quel suo voler mettere in scena il buonsenso, la sua fiducia nel progresso ma non nel modello di sviluppo che aveva sotto gli occhi.
Un uomo che guardava costumi e atteggiamenti, che ricostruiva trame e fili dietro le cose. Il vero intellettuale di quegli anni. Fino a Petrolio, romanzo iniziato nel 1972 ma rimasto incompiuto, un brogliaccio di appunti e note a margine. Che però conteneva «tutto quello che so», aveva detto Pasolini. Anche un capitolo intitolato Lampi sull’Eni, dedicato alla morte di Enrico Mattei e alla figura del successore Eugenio Cefis.
A ipotizzarlo come movente per l’omicidio di Pasolini è stato un magistrato, Vincenzo Calia, che indagava proprio sull’incidente aereo costato la vita a Mattei nel 1963.
È per questo che la frase che meglio spiega la fine di Pasolini l’ha scritta Tommaso Besozzi nel 1950, ricostruendo le ultime ore di vita di Salvatore Giuliano in una contro-inchiesta sull’Europeo: di sicuro c’è solo che è morto.