di Jacopo Bianchi | Da Torino a Eidomeni e ritorno. Tremilacinquecento chilometri per arrivare al cuore dei Balcani, per raggiungere quello che fino a ieri non era altro che un punto lungo la frontiera tra Grecia e Macedonia. Un luogo di passaggio diventato spartiacque tra due mondi, nodo della “rotta terrestre” dei migranti in fuga dal Medio Oriente delle guerre e delle persecuzioni.
A mettersi in viaggio sono stati quattro ragazzi di Torino, Fernanda Marco Federica e Costanza. Con il loro Pulmino Verde si sono uniti ai volontari che da tutta Europa negli ultimi sei mesi -fino al suo smantellamento- hanno portato aiuti al campo profughi di Eidomeni. Un vero progetto di solidarietà partecipata, costruito dal basso con pazienza e molta buona volontà. «C’era bisogno di tutto –spiega Marco Ceretto– e in tanti ci hanno dato una mano, a iniziare dagli Scout dell’Agesci della ValSusa che hanno raccolto molto più di quello che siamo stati in grado di portare fino in Grecia». A mettere in moto il PulminoVerde è stata l’esperienza fatta l’inverno scorso da Fernanda Torre nel campo profughi di Dobova in Slovenia. Ad aprile il progetto ha preso forma, anche grazie a una serata di presentazione ai Bagni Pubblici di via Agliè. Sulla piattaforma di crowfounding BuonaCausa.org è iniziata poi una piccola raccolta fondi in rete per coprire le spese. Ma a rendere possibile il viaggio è stata la risposta delle persone comuni. «C’è stato anche chi -racconta ancora Marco Ceretto- vedendoci pronti ormai a partire ha voluto contribuire con i soldi che in quel momento aveva nel portafoglio, quasi scusandosi di non poterci dare altro».
Una volta arrivati a destinazione anche quel poco, però, è stato di grande aiuto. A Eidomeni i ragazzi del Pulmino Verde si sono trovati di fronte una situazione di quasi totale anarchia: diecimila persone, per metà donne e bambini, afghani siriani e curdi bloccati in attesa di una decisione dell’UNHCR. Fermati ai confini dell’Europa perché sprovvisti di un documento che attestasse il loro status di rifugiati, abbandonati in attesa che si completasse un iter burocratico dalle tempistiche quanto mai incerte. Un limbo che ha messo in difficoltà anche le ONG intervenute per prestare aiuto e soccorso e ha convinto la società civile a intervenire. «Siamo stati trascinati nelle loro tende, siamo stati accolti come ospiti in quelle che erano diventate le loro case, ci hanno offerto tè e qualche biscotto ma soprattutto volevano parlare, avevano bisogno di raccontare e condividere la loro esperienza». Storie di persone alle quali una guerra o una persecuzione ha distrutto la vita e che per non morire cercano in Europa una seconda possibilità. «Tanti sono professionisti, che in Siria avevano un loro lavoro e dalla Siria non sarebbero mai voluti partire -spiega Marco- come successo a una donna che abbiamo conosciuto, un’insegnante che con il figlio voleva raggiungere il marito in Germania».
E poi i tanti ragazzini arrivati soli, che da soli vogliono continuare il viaggio: «è successo proprio mentre eravamo lì, un ragazzo afghano di 14 anni non ha voluto più aspettare e una notte ha passato il confine». Eidomeni e il vicino EkoRefugee di Polikastro raccontano però anche le storie dei greci che lì vivono e che in prima persona hanno dovuto affrontare l’emergenza, senza che l’Europa si preoccupasse. «Le voci e i racconti della Grecia dei migranti sono anche le loro, che non hanno voltato le spalle a nessuno e anzi si sono trovati in prima linea a fronteggiare una situazione che ha colto di sorpresa tutti e alla quale ancora non è stata data risposta».
Il campo profughi è stato chiuso, meglio sarebbe dire sgomberato, a fine maggio. Ma Fernanda Marco Federica e Costanza sono ancora in contatto con le persone che hanno conosciuto a Eidomeni. «Ci fanno avere notizie e ci mandano foto via Facebook», dice con emozione Marco. Esiste infatti un filo che lega quell’angolo di Grecia all’Europa, un filo fatto di messaggi scambiati via cellulare e notizie che viaggiano sui social network, tra chi ha passato il confine e chi ancora attende la sua occasione. Così si è saputo che le 8.000 persone del campo sono state trasferite in altri centri, utilizzando anche campi militari nel nord del Paese: per qualcuno la situazione è migliorata, per altri invece non è cambiato nulla. L’emergenza non è finita, è solo passata in secondo piano. Come è successo a Lampedusa e a Ventimiglia. E proprio a Ventimiglia arriverà nelle prossime settimane il Pulmino Verde. «Siamo in contatto con la Caritas -spiegano i ragazzi- la situazione anche lì è difficile: ci sono immigrati respinti dalla Francia che continuano a vivere sugli scoglie e sulle spiagge, in una sorta di terra di nessuno e di cui in pochi si stanno occupando».
Tutte le informazioni e le prossime iniziative del Pulmino Verde sono sulla pagina facebook dedicata.